Cefalea ed emicrania: qual è la differenza?

Il mal di testa è una condizione che affligge quotidianamente tantissime persone. Quante volte ci è capitato di sentire familiari, amici o conoscenti lamentarsi in tal senso, riferendo di avere una terribile cefalea…oppure si tratta di emicrania?

Certo, cefalea ed emicrania sono termini comuni e conosciuti da tutti. Eppure, spesso se ne fa un uso improprio. Quindi, cosa sono esattamente cefalea ed emicrania? Facciamo un po’ di luce su queste due condizioni, talvolta confuse ma estremamente disabilitanti e, spesso, mal diagnosticate.

Cefalea è il termine generale che definisce ogni sensazione dolorosa, circoscritta o diffusa, alla testa. Secondo la Classificazione Internazionale dei Disturbi Cefalalgici (ICHD-3), esistono oltre cento tipi di cefalea, distinti in due macro-categorie: le cefalee primarie, non derivanti da altre condizioni mediche di base, e le cefalee secondarie, causate invece dalla presenza di altre patologie.

Tra le cefalee primarie, l’emicrania è la più importante. Questa condizione patologica rappresenta un disturbo del sistema nervoso centrale che coinvolge neurotrasmettitori, tra cui il peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP), bersaglio importantissimo contro cui agiscono le terapie di ultima generazione, e vie del dolore, ossia sistemi di “trasporto” dello stimolo doloroso dai nervi periferici al cervello.

Queste poche righe introduttive sono più che sufficienti per poter dare risposta alla domanda posta in precedenza. Cefalea ed emicrania non sono la stessa cosa. Tutte le emicranie sono cefalee, ma non viceversa.

Approfondiamo ora alcuni aspetti peculiari dell’emicrania e del difficile percorso personale e clinico che il paziente emicranico è spesso costretto ad affrontare.

L’emicrania deve presentare caratteristiche ben precise, fondamentali in ambito medico perché una diagnosi corretta possa essere formulata. Ad esempio, il dolore deve durare tra le 4 e le 72 ore e deve essere localizzato unilateralmente (da qui il nome emicrania, cioè “metà testa”), deve essere di tipo pulsante e di intensità media o forte. Queste caratteristiche si accompagnano di solito a sintomi ben definiti, tra cui nausea o vomito, aumentata sensibilità alla luce (fotofobia) o ai suoni (fonofobia). Inoltre, l’emicrania viene classificata in base alla presenza o meno dell’aura, consistente in sintomi prodromici, cioè che precedono il manifestarsi dell’attacco emicranico, come disturbi della vista, della parola, della sensibilità e del movimento.

È evidente quindi come l’identificazione della malattia da parte del paziente non possa essere immediata. Si pensi inoltre che, solitamente, i primi attacchi compaiono in età adolescenziale, quando l’individuo è nel pieno delle sue energie e non contempla la possibilità di stare male. Quello che prova è un sentimento di confusione e negazione. Viene frainteso dal contesto in cui vive, sottovalutato o addirittura drammatizzato: “è solo un po’ di mal di testa!”. La reazione più comune è la frustrazione e la chiusura in sé stessi.

Le crisi col tempo aumentano e si intensificano. L’individuo comincia ad autogestirsi e cercare da sé soluzioni al malessere, procedendo per prove ed errori che portano ad accumulare frustrazione. In alcuni casi fa abuso di antidolorifici, in altri casi i farmaci vengono evitati totalmente.
A questo punto, la mancata risoluzione del disturbo porta allo sfinimento e a chiedere aiuto. La prima persona interpellata è il medico di base, persona di fiducia che capisce e conosce il paziente; subito dopo il neurologo specialista. Può succedere però che i clinici coinvolti lungo il percorso non identifichino subito la patologia e ciò che ne consegue è un ulteriore prolungamento del percorso del paziente e, talvolta, un aggravamento della condizione.

Possono passare anni prima che venga effettuata una corretta diagnosi, che rappresenta, per l’emicranico, il momento della verità: si sente, finalmente, capito. Timori e incertezze per il futuro tuttavia non mancano, a causa soprattutto della necessità di procedere, inizialmente, per tentativi ed errori.

Il primo trattamento prescritto è raramente infatti quello definitivo. Questo induce preoccupazione e, a lungo andare, scoraggiamento. Ci si chiede dell’efficacia della terapia, degli eventuali effetti collaterali, della sua durata, dei costi… La conoscenza della malattia da parte dello specialista e delle strategie disponibili per alleviare una disabilità che grava pesantemente sulla vita quotidiana, d’altro canto, rappresenta anche un sollievo, in quanto è percepita come una azione concreta.

Trasversalmente molti sono anche i rimedi alternativi a cui si fa riferimento, tra cui agopuntura, yoga, diete speciali, meditazione, che possano agire in sinergia con il trattamento farmacologico per prevenire e contrastare gli attacchi di emicrania.

Non tutti i soggetti affetti da emicrania però affrontano la patologia allo stesso modo. Esiste il paziente proattivo, in grado di prendere in mano la gestione della patologia, che riconosce le caratteristiche e i segnali prima che l’attacco si manifesti, non si ferma di fronte agli ostacoli che compaiono lungo il percorso. All’opposto troviamo invece il paziente passivo, rinunciatario, che è meno consapevole, tende a subire la patologia e ha un atteggiamento fatalista e più scettico anche nei confronti del medico e del trattamento.

Per il paziente passivo è altamente consigliabile non scoraggiarsi e non arrendersi: la lotta contro l’emicrania rappresenta un percorso lungo e spesso estenuante. Conoscere il nemico, tuttavia, rappresenta una condizione fondamentale per combatterlo (come diceva il generale Sun Tzu nel suo trattato, più di duemila anni fa): una maggiore consapevolezza delle caratteristiche di questa disabilitante malattia potrebbe sicuramente aiutare a riconoscerla, a non sottovalutarla e a cercare, dunque, dei percorsi diagnostici ben definiti che forniscano le strategie adatte alla sua sconfitta.

Condividi sui social: